Boris il film

In “BORIS IL FILM” il regista René Ferretti molla la brutta fiction tv che ha fatto per anni e tenta il grande salto: un film d'autore, per il cinema. Insomma, la libertà artistica dopo una carriera asservita al conservatorismo televisivo. Ma il mondo del cinema con i suoi snobismi può essere perfino peggio di quello della tv. Soprattutto per una troupe, quella di Ferretti, a dir poco estranea all’Arte con la “a” maiuscola.
Tra cinematografari snob, attrici nevrotiche, sceneggiatori modaioli, eroinomani, squali e improvvisati vari, “BORIS IL FILM” mette a nudo un mondo, quello del cinema italiano, che aspira a una nuova giovinezza e vive invece solo una perenne immaturità.

“Ci sono scene troppo brutte perfino per un regista televisivo: uno struggente rallenti sulla corsa nei prati di un giovanissimo Joseph Ratzinger che festeggia la scoperta di un vaccino è troppo anche per René Ferretti. E sì che di monnezza ne ha girata tanta, narcotizzanti apologie del presente, inquietanti biografie di santi e tante altre ancora (“Caprera”, “La bambina e il capitano”, “Gli amici tassinari”, “Libeccio”). E allora basta. Meglio l’insicurezza economica, meglio il cinema. Meglio tradire tutti - la Rete, la moglie in attesa di alimenti, la impresentabile storica troupe - e buttarsi nel cinema. Tanto più se la sfida è un copione libero, serio, forte, di denuncia, “alla Gomorra”. Sì, perché il cinema è più povero della TV (“dopo il cinema c’è la radio, dopo la radio c’è la morte”) ma ancora libero e poetico. Perfino in questo vessato paese. Purtroppo però, anche con un progetto “alla Gomorra”, bisogna fare i conti con la palude culturale che tutto ingloba. I committenti del salotto buono del cinema si rivelano, alla prova dei fatti, solo diversamente codardi. I nuovi collaboratori solo diversamente inaffidabili. E la presunta grandeur del cinema una rogna senza fine. Come per una condanna divina, nonostante i suoi lodevoli sforzi, René Ferretti si ritrova tra i piedi la stessa troupe scalcinata di sempre, gli stessi attori cani, gli stessi sceneggiatori inetti e perfino lo stesso borioso capetto d’un tempo. Con qualche colpo di fortuna e grazie alla sua proverbiale scaltrezza, un film decente sarebbe ancora arrangiabile. Forse anche ottimo. Ma incombe la maledizione metafisica di un paese chiamato Italia, che ama i simpatici e i cialtroni e non premia certe malinconiche seriosità. E la “Grande Commedia” incombe.