I ponti di Sarajevo

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I ponti di Sarajevo (Ponts de Sarajevo)

I ponti di Sarajevo (Ponts de Sarajevo)

I ponti di Sarajevo (Ponts de Sarajevo)

titolo originale:

Ponts de Sarajevo

titolo internazionale:

Bridges of Sarajevo

cast:

Gaetano Bruno, Emanuel Caserio, Emiliano Masala, Fortunato Leccese, Giovanni Ortoleva, Andrea Meneghello, Hans Gottardi, Laurent Gjeci, Paolo Iezzi, Angelo Spadaro, Michele Comite, Martin Tranquillini, Francesco Monticelli, Fatima Neimarlija, Maio Ivkovic

scenografia:

Alessandra Mura, Giuliano Carli

costumi:

Andrea Taddei

produttore:

Francesco Virga, Gianfilippo Pedote, Fabienne Servan Schreiber, Laurence Miller, Mirsad Purivatra, Jovan Marjanovic, Frédéric Mermoud, Pandora da Cunha Telles, Pablo Iraola, Titus Kreyenberg

produzione:

Cinétévé, MIR Cinematografica, Unafilm, Rai Cinema, France 2 Cinéma, con il contributo del Ministero della Cultura, Obala Art Centar, Bande à part films, Ukbar filmes, La Mission du centenaire de la Première Guerre mondiale, Orange Studio, RTS Radio Télévision Suisse, con il sostegno di ATLantic Grupa, Cinéforom, ICA – Instituto do Cinema e do Audiovisual, Film und Medienstiftung NRW, Fondation Sarajevo Cœur de l’Europe, Loterie Romande, Medienboard Berlin-Brandenburg, Office fédéral de la culture (DFI) - Suisse, Sarajevo City of Film, Fondazione cassarurale di trento, Trentino Film Commission

vendite estere:

paese:

Francia/Bosnia/Svizzera/Italia/Germania/Portogallo

anno:

2014

durata:

110'

formato:

colore

uscito il:

25/06/2015

premi e festival:

Il progetto filmico chiama a raccolta 13 tra i più eminenti registi europei contemporanei per confrontarsi con i fantasmi e le speranze di rinascita che hanno animato l'Europa a partire dallo scoppio della Grande Guerra. Lo spunto è la città Sarajevo, epicentro delle tensioni del Secolo Breve, palcoscenico d'eccezione delle sue drammatiche conflittualità, culture, identità etniche e geoplotiche che qui hanno detonato, disseminando su tutto il continente le sue onde d'urto. Ma Sarajevo è anche il simbolo, il cuore di speranze che sono risorte proprio dalle macerie di quei drammi; l'ideale praticabile di una rinnovata convivenza, della ricostruzione di un progredire civile dell'Europa. Per questo Sarajevo è l'archetipo dei conflitti e delle speranze europee.
Un caleidoscopio di sguardi, un mosaico di registi appartenenti a diverse generazioni e nazionalità accomunati dalla loro eccezionalità e dall'appartenenza a un comune sentire. Non un film di mera ricorrenza (il centenario della Grande Guerra) quanto nuove, a volte sorprendenti, prospettive sul significato stesso di quella guerra e degli eventi che l'hanno succeduta, in un costante alternarsi di agitazioni collettive e sforzi creativi senza eguali.
Dall'assassinio dell'Arciduca d'Austria di quell'estate del 1914, che ha dato fuoco alle polveri della Grande Guerra, fino al sanguinoso assedio degli anni '90 seguito dal mondo in diretta televisiva, la capitale bosniaca ha interpretato suo malgrado la parte di città-simbolo delle violente contraddizioni delle potenze europee e della fine della Guerra Fredda e del risveglio dei nazionalismi aggressivi. Ma Sarajevo ha saputo incarnare anche la rinascita degli ideali civili di pacifica coesistenza e scambio fecondo tra religioni e comunità etniche. Una realtà che prende forma nella stessa architettura di questa città di frontiera, nella sua combinazione creativa di influenze ottomane e strutture mitteleuropee, Europa ed Oriente, nella valle che l'accoglie tra i monti dei Balcani.
In questo scenario i numerosi ponti che uniscono le sponde della città rappresentano forse un capitolo a parte: edificati e distrutti tra momenti di pace e di conflitto, sabotati o ricostruiti, quasi reinventati per permettere il continuo flusso di uomini, beni e idee tra le due sponde che alcuni avrebbero voluto distanti, irraggiungibili, a testimoniare quella separatezza elevata a programma politico. La storia di Sarajevo, che è storia non solo bosniaca o jugoslava ma Europea, scorre da più di un secolo sotto e sopra i suoi ponti.
E il valore simbolico di questi archi gettati a creare comunicazione dà corpo al simbolico europeo per eccellenza, sospeso tra catastrofe epocale e sogno rinascente. Una città complessa come complessa è la ricchezza delle prospettive di questo film collettivo che affronta con le sue diverse narrazioni e sensibilità stilistiche ed evocative 100 anni tra i più significativi della nostra storia di europei.
È Leonardo Di Costanzo ad affrontare in maniera aperta, frontale vien da dire, il tema della prima conseguenza dei fatti dell'estate 1914 su tutto lo scacchiere europeo: la Grande Guerra e la fabbrica della Morte nelle trincee delle montagne italiane. Documentarista di grande sensibilità, ha debuttato con L'Intervallo nel 2012 e ha saputo raccogliere alcuni tra i più prestigiosi riconoscimenti tra cui il Premio FIPRESCI. Il suo episodio, L’avamposto è liberamente ispirato a un racconto di guerra del grande Federico De Roberto e sceneggiato da Maurizio Braucci, che oltre allo script de L'Intervallo ha co-firmato molti dei migliori film di Matteo Garrone (Gomorra, Reality ). Non è necessario dilungarsi sulla presentazione di Jean-Luc Godard. Vale forse la pena ricordare quanto questo maestro del cinema europeo abbia seguito con partecipazione le vicende di Sarajevo, visitandola durante l'assedio e ponendola al centro di molte delle sue opere più recenti (JLG/JLG, Forever Mozart, Our Music…).
Per una narrazione del conflitto etnico in soggettiva non poteva mancare una filmmaker della capitale bosniaca; e chi più della apprezzata Aida Begic (Snow, Buon Anno Sarajevo, entrambi presentati a Cannes), che ha direttamente vissuto sulla propria pelle di adolescente l'assedio pur rifiutando di definirsi come una sopravvissuta? Ed è davvero importante che al progetto partecipi con un suo film anche il regista serbo Vladimir Perisic che con il suo Ordinary People si è fatto notare come una delle voci più promettenti del cinema balcanico.
Il lavoro è arricchito da un episodio diretto dalla giovane attrice francese Isild Le Besco, che ha già avuto modo di dare prova di inventiva formale e precisione narrativa nella sua opera di debutto alla regia. Così come la partecipazione dello spagnolo (o meglio del catalano) Marc Recha, da più di un decennio punta di diamante della nuova cinematografia iberica, della regista di punta della "Scuola di Berlino, la tedesca Angela Schanelec, della sorprendente svizzera Ursula Meier, che ha conquistato platee e critica con i suoi Home e Sister e la portoghese Teresa Villaverde, autrice del film Tres irmaos.
Ampia la partecipazione delle voci più autorevoli del cinema est-europeo: il pluripremiato Cristi Puiu, una delle firme più interessanti della New Wave romena (The Death of Mr Lazarescu, Aurora); la giovane rivelazione della cinematografia bulgara con il suo Eastern Plays, Kamen Kalev; il già grande Sergej Loznitsa che ha portato il cinema ucraino per due volte in competizione a Cannes con i suoi My Joy e In the Fog.
Per chiudere questo ideale cerchio di sensibilità e ricchezze espressive, un autore di grande valore: Vincenzo Marra, una sensibilità artistica formatasi alla scuola del documentario già messa a frutto nei suoi film di finzione di grande qualità narrativa e visuale: Tornando a Casa e L'Ora di Punta per citare solo i più noti. Il suo episodio, Il Ponte, ambiento su un ponte romano, è una struggente analisi delle ferite profonde connaturate all'esperienza dell'esilio.

NOTE DEL DIRETTORE ARTISTICO
Rispettando la libertà linguistica ed espressiva di ogni singolo regista, il progetto è unito da un coerente filo rosso tematico: la relazione tra la città e le guerre del XX secolo e per esteso il rapporto tra l'Europa e i temi che la città incarna: lo scontro culturale, la guerra, l'esilio, la solidarietà, il dolore privato e la speranza.
Il film è quindi una riflessione individuale e collettiva sul conflitto e la riconciliazione come polarità della storia europea del secolo scorso.
Sarajevo, il luogo dove secondo molti è iniziato il Novecento e il teatro dell'ultima guerra del secolo scorso diviene spunto e ispirazione libera della creatività dei registi che si inoltrano in temi e suggestioni che travalicano il ruolo della città bosniaca.
Ma Sarajevo è anche la città dell'"Arte di Vivere" come l'hanno definita molti osservatori dei suoi giorni più bui, l'antesignana di quella costituzione multietnica e pluriculturale a cui la stessa Unione Europea s'ispira; un sogno sempre rinnovato malgrado gli alti e bassi della Storia. Un filo spezzato che si intreccia nuovamente dopo il passare della guerra, forse anche durante essa.
Il titolo del nostro film cita i suoi ponti non solo per il valore simbolico che rivestono nella città ma per il respiro più ampio delle loro suggestioni. I ponti di Sarajevo e, indirettamente, dei Balcani: il Ponte Latino, presso cui fu assassinato l'Arciduca nel giugno del 1914; il Ponte di Mostar, la cui distruzione sotto gli occhi delle telecamere ha evocato il peggior momento della guerra nella Ex-Jugoslavia e la cui ricostruzione ha rinnovato le speranze di un presente diverso; il Ponte sulla Drina, il romanzo epocale dello scrittore serbo Ivo Andric, una metafora della convivenza resa impossibile dallo scoppio della Grande Guerra.
Sarajevo è oggi una realtà urbana complessa e ricca di diversi influssi. Capitale di un paese formalmente ancora esterno alla costituzione dell'unità europea ne incarna tuttavia i valori più elevati. Ponte tra Est ed Ovest, Unione Europea e Oriente turco-balcanico, mondo germanico e universo slavo; è uno spazio unico di coabitazione tra etnie, fedi, retaggi nazionali e comunitari. Ed è anche sede di una consistente comunità Rom dalla fervida attività comunicativa.
Il suo nome risuona nell'immaginazione di milioni di persone, anche in chi non vi ha mai messo piede. Incendio incombente e suggestioni romantiche. Punto focale di un ricco immaginario visivo che ne ha punteggiato lo sviluppo: dagli scatti iconici dei grandi fotoreporter al ronzare continuo dei feed delle news televisive. E il cinema non si è sottratto al fascino di questà città unica: dalle trine Hollywoodiane di Majerling e della Principessa Sissi ai film di intrigo internazionale. Oggi, con il nostro progetto, vogliamo dare alla capitale bosniaca quella connessione con il corpo palpitante del cinema europeo che a lungo è mancata.
Jean-Michel Frodon

L'AVAMPOSTO di Leonardo Di Costanzo
Prima Guerra Mondiale. In una trincea scavata nella roccia del Monte Pasubio è asserragliato un piccolo plotone di militari italiani, per lo più ragazzi, ognuno con il proprio dialetto, ogni volto con una storia diversa. Il loro compito è quello di riconquistare un avamposto a poche centinaia di metri, ma un cecchino nemico uccide uno ad uno tutti i soldati che cercano di avvicinarsi.
La convinzione di andare incontro a morte certa seminerà il panico tra i giovani militari.
Note di Regia:
Prima Guerra Mondiale. L’esercito italiano e quello austro-ungarico si fronteggiano sulle montagne del Trentino. In una galleria-avamposto scavata nella roccia, occupata dal plotone del capitano Alfani, da giorni non succede niente. Con le linee nemiche distanti poche centinaia di metri sembra essersi stabilito un accordo tacito: nessuna delle parti molesta l’altra. All’alba di un giorno di fine estate la tranquillità viene interrotta. Un soldato del plotone italiano è ammazzato dal tiro preciso di un cecchino mentre si reca a dare il cambio alla vedetta posta su una piazzola di controllo a una cinquantina di metri dalla galleria.
Per raggiungere il posto di vedetta si deve attraversare un camminamento accidentato, solo in parte protetto dal tiro nemico. Per alcuni metri si è esposti ai colpi del cecchino nemico, nascosto chissà dove. Eppure quella piazzola bisogna raggiungerla, i comandi, distanti eppure presenti, lo richiedono. Solo da lì si può controllare l’imbocco del canalone dal quale gli austriaci potrebbero attaccare.
Uno ad uno i soldati escono dalla trincea e tentano di raggiungere la piazzola. In un tragico e spietato succedersi, i soldati, in maggioranza giovanissimi, andando a morte, escono dall’ombra indistinta della galleria, dalla protezione del gruppo. La paura disegna individui e caratteri: c’è chi fa il guascone, chi chiede il cappellano, chi, il più vecchio, si informa se il governo poi, si prenderà cura della moglie e dei figli. A comandare il plotone c’è il tenente Alfani, personaggio tragico e struggente al tempo stesso, stretto tra la consapevolezza del suo ruolo in quel drammatico susseguirsi di morte e l’inflessibilità della logica militare di cui, suo malgrado, è il tutore.
Il film presenta l’azione in medias res: chi osserva nell’oscurità della galleria, dove le forme umane prendono corpo progressivamente, acquisisce la consapevolezza del dramma che si sta compiendo sotto i suoi occhi: 4 o 5 uomini giacciono morti a pochi metri dalla piazzola; gli altri soldati a turno si preparano ad affrontare quello che sanno essere l’ultimo loro compito di soldati e di uomini…
Ma dietro al racconto di quello che a noi appare essere l’essenza della guerra, narrata dall’interno di una galleria di montagna, è possibile intravedere quale Italia affronta quel conflitto: una nazione ancora giovane, con un amalgama poco riuscito di popoli diversi, che parlano lingue diverse, un’entità che, a dispetto della retorica militare, è poco presente nelle coscienze delle masse popolari e contadine, mandate al macello in nome di un senso di appartenenza che avevano il più delle volte soltanto subìto.

IL PONTE di Vincenzo Marra
Majo e Fatima sono arrivati a Roma vent'anni fa fuggendo dall'assedio di Sarajevo. Lei è una bella donna vicina ai cinquanta, cristiana. Lui cinquanta compiuti, musulmano. Il loro fragile equilibrio costruito negli anni viene rotto dalla notizia della morte del padre di Majo che obbligherà i due a fare i conti con il proprio doloroso passato. Note di regia:
Circa un milione e mezzo di bosniaci hanno abbandonato il loro paese a seguito della guerra che ha straziato l'ex Jugoslavia e si sono rifugiati in ogni angolo del mondo. Oggi, a 20 anni dalla fine di quel conflitto che aveva mandato in frantumi l'idea di convivenza tra etnie e confessioni diverse, in centinaia di migliaia continuano a vivere lontani dal loro paese d'origine: è la diaspora bosniaca. L'idea che sostiene IL PONTE è quella di raccontare, qui ed ora, questo popolo in diaspora, con le ferite vive, ancora aperte, nonostante i tanti anni passati dagli eventi. Un dramma nel dramma.
Ho voluto che questa realtà si ritrovasse anche nel mio approccio complessivo al film, sia nel momento della ricerca e dalla scrittura che in quello della selezione del cast e del lavoro con esso. Ho voluto immaginare una coppia bosniaca di religione mista. Un “meticciato” religioso che, prima del conflitto, rappresentava la più marcata eccezionalità di questo popolo nello scacchiere balcanico. Ed era anche la caratteristica contro cui i cultori della purezza etnica si sono scagliati con maggior violenza durante la guerra. La coppia vive a Roma da tanti anni; è amalgamata nel tessuto sociale: entrambi lavorano regolarmente, hanno una casa accogliente frutto dei loro sforzi, ma non riescono ancora a fare i conti in profondità con il passato traumatico e con il distacco dal proprio paese: una terra lontana dove è custodito un dolore rimosso e profondo che è quello di un popolo intero.
Per dare volto e voce a questa coppia ho scelto, come in altri miei lavori precedenti, di effettuare una ricerca nella realtà. Ho cercato nella comunità bosniaca di Roma un uomo e una donna che avessero un vissuto simile a quello dei personaggi della sceneggiatura de IL PONTE e che fossero in grado, per qualità espressiva e serietà di approccio, di rivivere e restituire le memorie di quei dolori trascorsi per il pubblico di oggi. Ho scelto, cioè, di lavorare con attori non professionisti prediligendo il dato esperienziale su quello meramente professionale.
I veri “Majo e Fatima”, i protagonisti de IL PONTE, sono quindi due veri sopravvissuti all'assedio di Sarajevo e, come i miei personaggi di finzione, sono stati costretti all'espatrio dopo vicende personali traumatiche. Ed esattamente come i personaggi dello script, anche i veri Majo e Fatima non sono ancora riusciti a fare i conti con il grande trauma rimosso che impedisce loro di fare ritorno in patria. La loro sensibilità ed espressività ci guida con maggiore verità all'interno del dramma collettivo di un'intera generazione di bosniaci costretti a un esilio perdurante e il mio lavoro con loro permette di aggiungere al canovaccio un ulteriore livello di profondità umana e storica.