Gli altri (opera prima)

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Gli altri

titolo originale:

Gli altri

regia di:

fotografia:

montaggio:

scenografia:

produttore:

paese:

Italia

anno:

2022

durata:

105'

formato:

colore

uscito il:

30/11/2023

premi e festival:

Che cos’è un nome, un indirizzo qualunque, un volto perduto tra innumerevoli volti? L’illusione dell’identità, la Dolcezza infinita, l’Amore assoluto, il Rimpianto, la Tenerezza, la Malinconia, la Nostalgia colorano questo meraviglioso testo di Michele Prisco. Amelia Jandoli. E’ lei la protagonista di questo straordinario viaggio: una donna già avanti negli anni che vive sola nel cuore di una città del sud degli anni Cinquanta, i cui muri ‘di pallido oltremarino’ sono ‘simili a una mappa segreta impossibile da decifrare’. La sua è stata una vita insignificante, chiusa nel cerchio di piccole e reiterate abitudini: la scuola di ricamo e una realtà quotidiana di solitudine e malinconia. Ma quando la incontriamo, uno sconosciuto irrompe nella sua casa e le dice che un altro uomo, Felice, invoca il suo nome sul letto di morte. Pur non conoscendo nessuno dei due, in Amelia Jandoli scatta qualcosa di misterioso che la spinge a seguire contro ogni ragione lo sconosciuto. E’ così che nella sua quotidianità si apre un varco attraverso il quale entrano nella sua vita ‘gli altri’, innanzitutto la donna che le ruberà il nome, Marisa. Attraverso il nome rubato, Amelia vivrà la storia dell’amore segreto tra Felice e Marisa. Da qui si svilupperà una storia incredibile, perturbante ed appassionante. Questa sceneggiatura si configura come un vero e proprio thriller sentimentale: sono gli altri che determinano le nostre esistenze, anche quando siamo soli, anche quando non lo sappiamo. La nostra vita non è che un riflesso: è questa la convinzione che ha guidato Prisco nel corso della sua lunga esistenza di creatore di meravigliosi mondi letterari. La sua scrittura è tesissima e straordinariamente efficace, i suoi personaggi sono esseri di carne e sangue, mai creature letterarie. Il suo stile è sorprendente, spiazzante, avvincente. La natura partecipa agli stati emotivi di tutti i personaggi, quasi in senso russo: il cielo piange, l’aria si fa pesante, la luce cupa, tutto è perduto.
Amelia, la protagonista, seguirà le tracce di una storia sempre più incredibile. Nel labirinto di questa città allucinata, dotata di pensiero proprio, cercherà affannosamente le tracce della propria identità, ponendosi al centro di un destino irreversibile, di una storia d’Amore senza futuro, in un luogo dove tutto può mutare improvvisamente e in cui, per un piccolo errore, si può perdere la vita. La mappa di questo labirinto è irrimediabilmente perduta ed i suoi confini mutano incessantemente, come in un sogno. I luoghi si trasformano e divengono deserti interiori, mari, palazzi di cristallo, interni di corpi, corridoi infiniti. Il caso governa le esistenze di questi piccoli uomini, persi nell’illusione di poter scegliere, legiferare e determinare, mentre un tempo denso e mutevole avvolge i loro destini. È l’intrecciarsi di fato, casualità e coincidenze a tessere e tiranneggiare la vita umana. Le poche certezze di Amelia vengono puntualmente messe in discussione, in balìa degli eventi, dei personaggi che incontra e dell’ironia della sorte, senza sosta. In questa città di cristallo una vita si può infrangere per un piccolissimo errore, per una scelta sbagliata, un incrocio mancato, un appuntamento non rispettato, un incontro non avvenuto. L’inchiesta di Amelia ha esiti quanto mai incerti e le scoperte che farà nel corso del racconto riguarderanno la natura più profonda dell’essere umano. In questo viaggio appassionante e misterioso, il vero, unico luogo reale rimarrà però la mente umana, analizzata con gli straordinari strumenti della scrittura di Michele Prisco, un attimo prima di un improbabile risveglio.
Qui la morte si sovrappone alla vita, le visioni divengono realtà, i sogni si fanno tangibili ed i morti interagiscono con i vivi. Il tentativo è quello di entrare direttamente nelle menti e nei cuori dei personaggi, nei loro desideri, nei loro affanni, nelle loro ansie, nelle loro emozioni e speranze disattese o soddisfatte. L’equilibrio delicatissimo in cui si muovono tutte le figure del film, compone un affresco di una potenza espressiva straordinaria.
La febbre del nostro tempo ci porta a vivere in una realtà anestetizzata, un mondo fittizio in cui l’emozione è bandita, al servizio di un intellettualismo sterile e desolante. Il senso dell’affermazione dell’Io divora i nostri giorni. L’arte è svuotata della sua dimensione spirituale: siamo in un momento di emergenza assoluta. La cultura attraversa una crisi epocale: mancano la necessità, la fede, la fiducia in qualcosa di superiore, la luce di un angelo che possa elevare i nostri destini. Santa Teresa d’Avila scriveva: “Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo”. Ma oggi il nostro corpo è divenuto merce, moneta di scambio, non più sede inviolabile della bellezza e dell’estasi. La dimensione spirituale è irrimediabilmente perduta. Il senso del sacro è ormai sconosciuto. Illusi della nostra unicità, della nostra peculiarità, in realtà pensiamo tutti nello stesso modo, diciamo le stesse parole, abbiamo tutti le stesse esigenze, le stesse speranze, le stesse ansie, la stessa quotidianità fabbricata in serie. Ci illudiamo di essere liberi. Ci illudiamo di essere qualcuno, di avere un’identità. Crediamo di poter sconfiggere l’oblio e di avere un posto assicurato nel Tempo, nella Storia.

NOTE DI REGIA:
La storia procede con una tensione vertiginosa, da thriller contemporaneo, la città diviene un labirinto, l’intrico dei vicoli metafora della mente dei protagonisti, le stanze sono estremi rifugi di anime cristalline, le strade sono le vene di un destino superiore. Attraverso un utilizzo non realistico della fotografia, insieme a Fabio Zamarion (Direttore della fotografia), abbiamo creato le atmosfere di una città sospesa, surreale, dai colori lividi. E’un “non luogo” quasi metafisico. I vicoli, le scale, i corridoi, le strade fangose, la pioggia, lo squallore degli interni, i cortili, i soffitti marcescenti, attivano nello spettatore la necessità di un ricorso all’olfatto, o addirittura al tatto, per integrare e completare l’esperienza proposta dall’immagine. E’ stato condotto uno studio accurato del colore di ogni fotogramma e Zamarion ha utilizzato un particolare filtro che rende l’immagine digitale molto simile a quella ottenuta girando in pellicola.
Le scenografie di Marco Vigna e Fabio Fersini hanno un’impostazione solo apparentemente realistica. Si tratta invece di luoghi quasi metafisici, trasformati nella loro quotidianità, abitati da creature surreali. Per questo ho svolto un lungo lavoro di ricerca delle location in fase di pre-produzione, proprio perché intendevo realizzare atmosfere ben precise. Anche per quanto riguarda i luoghi “inventati”, abbiamo scelto i colori propri dell’incubo, della surrealtà, dell’allucinazione, del sogno. Il lavoro sui costumi, condotto insieme a Daniele Gelsi (Costumista), è partito da una rigorosissima filologia anni ’50, condotta con un lavoro molto accurato sulla scelta dei tessuti. I colori sono spenti, su scala di grigi , in rapporto alla Fotografia di tutto il film. Il ritmo del racconto è vorticoso, avvincente, la tensione, pagina dopo pagina, affiora impercettibilmente e costringe lo spettatore ad avviarsi per le strade di questo luogo oscuro, instabile deserto metropolitano di ansie, paure profonde, gioie improvvise, presenze enigmatiche, doppi, in cui ad ogni via si sceglie un destino, ad ogni incrocio si cambia vita e futuro possibile. L’equilibrio narrativo dell’intero film è stato scrupolosamente realizzato grazie al sapiente lavoro di Massimo Quaglia, (Montatore) che ha saputo valorizzare ogni singola sequenza attraverso un montaggio ritmico di assoluta raffinatezza. Una indecifrabile inquietudine percorre le atmosfere dell’intero film. Tutti i personaggi sono stupiti, fragili, appesi a un filo di speranza, confuse vittime di un destino segnato, ritrovano la strada solo grazie a piccoli indizi. L’identità qui non esiste o meglio, esiste esclusivamente l’identità della immensa città che si frantuma, si insinua nei corpi, li guida e gioca con loro a suo piacimento. L’importanza delle musiche di Paolo Coletta è capitale. Non si tratta di un utilizzo convenzionale delle musiche. Qui la musica non è decorativa o utilizzata come semplice “accompagnamento”.
Si tratta invece di una “para/drammaturgia”, una seconda sceneggiatura che vive una vita autonoma e potenzia ogni singola immagine, spingendo lo spettatore verso un coinvolgimento emotivo totalizzante. Fondamentale è il lavoro sulla recitazione, da me condotto insieme agli interpreti in maniera molto analitica, mirando ad una credibilità degli stati emotivi, senza elementi aulici o non organici. Il lavoro sulla vocalità, sugli sguardi, sui tempi, sulle relazioni, sugli stati emotivi più rimossi, sulla mimica facciale, è stato affrontato con rigore e pertinenza da tutto il cast.
I personaggi del nostro film, perduti sul filo dell’orizzonte, tra la nebbia degli anni ’50, divengono simboli, testimonianze di un mondo perduto e dimenticato, un mondo ingenuo, cristallino, fatto di rapporti umani sinceri, di sguardi e gesti lenti e precisi. Un’Italia diversa, in cui era forse possibile ancora amare e parlare di cristiana solidarietà e compassione umana.