Hill of Vision

Seconda guerra mondiale, Alto Adige. Mario ha solo 4 anni quando sua madre viene arrestata dai fascisti. Il piccolo trascorre l’infanzia per strada vivendo di espedienti. Finita la guerra, lui e la madre miracolosamente si ritrovano e ricominciano una nuova vita in America, presso la comunità Quacchera ‘Hill of Vision’. Mario non riesce a inserirsi nel nuovo contesto di normalità, fino a quando non scopre, grazie allo zio scienziato, la passione per la scienza. Basato sull’avventurosa vita di Mario Capecchi, Premio Nobel per la Medicina nel 2007.

NOTE DI REGIA:
Sono quindici anni che lavoriamo a questo film, ovvero dal 2007, da quando io e Elda Ferri abbiamo appreso della vita di Mario Capecchi, premio Nobel per la Medicina. Sua madre Lucy, americana, viene arrestata dai nazifascisti e deportata a Dachau, e Mario all’età di 4 anni viene abbandonato tra le montagne di Bolzano. Come può un bambino così piccolo sopravvivere vivendo alla giornata, senza mai un pasto caldo, e poi emigrare in America dove si trova ad affrontare altre enormi difficoltà? Sarebbe una storia incredibile se non fosse accaduta davvero. Infatti è stata la stessa Accademia del Nobel a segnalare che la biografia di Capecchi sarebbe perfetta per un film. Speriamo di essere stati all’altezza del compito.
La cosa che più mi ha affascinato di questa impresa è stata l’idea di dovermi cimentare con la psicologia di Mario in quell’arco di tempo che va dai 4 agli 11 anni, il periodo che intendevamo raccontare. Come ha potuto quel bambino superare la fame, la povertà, l’abbandono prima della madre e poi del padre? Come è riuscito, partendo da una condizione di vita a dir poco impossibile, ad affrontare il passaggio dall’Italia all’America, da una lingua all’altra, dall’analfabetismo alla scienza?
Ho sempre avvertito il fascino della psicologia infantile, che ho raccontato in alcuni miei film, da Jona che visse nella balena a I Viceré. Anche in quei casi un bambino parte da condizioni tragicamente avverse, il campo di concentramento in Jona, un padre despota ne I Viceré, per poi essere capace di ribaltare la realtà, lasciare alle spalle il passato, far tesoro delle difficoltà e alla fine emergere pienamente.
Freud sosteneva che nei primissimi anni di vita si forma il carattere di un individuo. È certamente vero nel caso del nostro piccolo Mario, che deve aver introiettato da sua madre Lucy un insegnamento così forte e potente da superare quell’inferno che ha vissuto sino a quando è stato ritrovato, allorché nel 1945 lei è tornata viva dal campo di concentramento.
Anche Lucy è un personaggio di raro spessore, capace di arrivare in America solo per mettere in salvo il figlio e poi consegnarsi all’oblio per curare le proprie ferite. Non si esce da un lager indenni e la vita successiva della madre di Mario ne è una prova.
La sceneggiatura di questo film ha richiesto molti anni di elaborazione. Intanto, partendo da una storia vera, la prima preoccupazione è stata di combinare lo spettacolo con la realtà. Sono stati anni di lavoro accanto a Capecchi, che oggi ha 84 anni, per il quale ricordare il suo passato non è stata una passeggiata.
Tornare indietro nel tempo, affrontare momenti drammatici della propria vita, anche se poi accompagnati da molte gioie, comporta uno scavare dentro se stessi che richiede forza e dedizione. Ho contato il tempo dei nostri incontri e siamo a molte decine di ore registrate, oltre alle giornate spese a tornare sui luoghi dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza sia in Italia che in America.
Più che ricercare le location dove girare il film, abbiamo scavato “le location dell’anima” di Mario. Gli snodi della sceneggiatura riflettono questo tragitto.
Parlando con Mario ho avuto la sensazione di entrare in una miniera dove scendendo i vari piani si scopre sempre qualcosa di nuovo. Andando indietro con la memoria probabilmente neppure lui si aspettava di ricordare tanti episodi. Come quando Lucy, compiuta la sua missione di mettere in salvo il figlioletto, sceglie di ritirarsi, rendendosi conto di non poter fare di più. Entreranno in scena suo fratello Edward e la moglie Sarah, altri personaggi indimenticabili, raccogliendo il testimone e aiutando Mario a passare da una dolorosa infanzia a una fruttuosa adolescenza.
Il senso del film è offrire allo spettatore gli stessi momenti di emozione e passione generati in me dall’incontro con la vita di Mario, un’avventura così appassionante che sembra un romanzo. Vedi ad esempio l’incontro con quella ragazzina che vuole essere chiamata Frank, con un nome maschile, rimasta orfana insieme al fratellino, che vagabonderà con Mario insegnandogli i trucchi della sopravvivenza.
La trama della sceneggiatura si snoda su più piani: il momento dell’abbandono e dello spaesamento nel ritrovarsi solo a 5 anni, dopo due anni passati insieme ai contadini, e dover pensare ogni giorno a come mettere qualcosa nello stomaco per non morire di fame; il doversi comportare non più come un ragazzino, ma come un adulto per sopravvivere in tempo di guerra, dove la violenza quotidiana è la prima realtà da affrontare; la sorpresa di riabbracciare la madre dopo anni in cui la credeva morta; il viaggio in America e l’ingresso in un nuovo mondo, dove è d’obbligo parlare una nuova lingua, osservare nuove regole, lasciare alle spalle un tragico passato; infine il salto nel buio di una nuova realtà, all’inizio apparentemente ostile, poi foriera del più straordinario e meritato successo.
Lo stile del film non può che essere questo: raccontare tutto ciò, sapendo che chi lo vedrà, se il risultato sarà quello che spero, uscirà arricchito da tante emozioni fuori dall’ordinario. Il messaggio è chiaro: se ce l’ha fatta Mario, partendo da una condizione così estrema, allora possiamo farcela anche tutti noi.
Basta sapere essere “resilienti”, ovvero non darsi vinti mai.