titolo originale:
The Stone River
regia di:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musica:
Piero Bongiorno, Olivier Touche
produttore:
produzione:
Altara Films, Les Films du Poisson, Rai Cinema, con il sostegno di Regione Toscana, CNC
paese:
Italia/Francia
anno:
2013
durata:
88'
formato:
HD - colore & b/n
status:
Pronto (14/10/2013)
premi e festival:
Il cimitero del piccolo paese raccontato da Edgar Lee Masters nella celebre Antologia di Spoon River sembra esistere veramente: si chiama Hope, è in Vermont ed è popolato da Italiani.
Fine Ottocento. A Carrara si diffonde la voce che nel Nuovo Mondo abbiano scoperto grandi cave di granito e che per chi voglia tentare la sorte siano disponibili speranza, lavoro e una buona paga. Gli imprenditori americani ricercano particolarmente i lavoratori carraresi perché conoscono la loro abilità e la padronanza unica nella tecnica della lavorazione della pietra.
E così sono in molti a prendere la decisione di emigrare con l'ambizione di costruirsi una vita nuova in una società migliore. Insieme ai Carraresi, scalpellini ticinesi, della Valceresio, Piemontesi.
La città di Barre passa dai 2.060 residenti del 1880 ai 15.000 dei primi decenni del '900, grazie all'apertura delle più grandi cave di granito grigio del mondo e agli immigrati appena giunti dall'Italia ma, in certa misura, anche dai principali centri di estrazione della pietra di Scozia, Spagna, Svezia, Francia, Irlanda. La città è divisa in due: nella zona sud abitano i residenti di lunga data, nella parte nord vivono invece gli italiani. Sono in maggioranza anarchici e socialisti che hanno portato con sé, oltre all'abilità nel lavorare la pietra, le loro convinzioni politiche e si amministrano in maniera pressoché autonoma.
È un luogo diverso da Carrara ma non del tutto. Gli Italiani hanno lasciato tracce che sopravvivono tutt'ora. In Granite Street troviamo un inaspettato edificio antico di mattoni rossi. Si tratta della Labour Hall, la Casa del Popolo.
Gli Italiani si organizzano sul lavoro, costituendo sindacati e rivendicando i propri diritti, fino ad arrivare al grande sciopero del 1921, spezzato dall'arrivo in massa di manodopera non specializzata dal vicino Quebec.
La loro è una storia tragica. Le speranze vengono spente dal diffondersi di una malattia fino ad allora sconosciuta per loro: la silicosi. Diversamente dal marmo, la silice contenuta nella polvere di granito si deposita nei polmoni e diviene come una lama affilata. I cavatori e gli scalpellini di Barre sono destinati ad una fine lenta ma inesorabile. Conducono con orgoglio la loro lotta quotidiana contro l'aspra durezza del granito ma portano in sé la mestizia che deriva dalla consapevolezza di essere destinati in gran parte ad una morte certa.
Emblema della tragedia che si consuma a Barre - assai poco conosciuta fino ad oggi - è l'impressionante cimitero monumentale di Hope. Il nome non può essere più significativo. Sono stati gli stessi scalpellini italiani a scolpire i bellissimi monumenti funebri per i loro familiari e compagni che li hanno lasciati prematuramente. Ogni tomba è stata adornata con sculture che ricordano oggetti o avvenimenti legati alla vita del defunto e che esprimono la grande perizia tecnica degli artigiani italiani. Ogni tomba porta con sé una storia. Spesso tragica. Come quella del celebre scultore Elia Corti, ucciso da una pistolettata proprio sui gradini d'ingresso della Casa del Popolo, nel 1903, durante uno scontro tra anarchici e socialisti.
L'epopea dei lavoratori della pietra di Barre viene raccontata con l'ausilio di un materiale di eccezionale importanza storica, conservato presso la Biblioteca del Congresso Americano: le interviste agli abitanti raccolte alla fine degli anni Trenta da alcuni scrittori inviati dall'amministrazione Roosevelt, con il compito di fornire un ritratto della provincia americana durante la Grande Depressione. I testi hanno una straordinaria qualità letteraria. Non è un caso che il Federal Writers Project ha visto tra i suoi partecipanti scrittori del calibro di John Steinbeck e Saul Bellow.
I discendenti di quegli immigrati sono stati coinvolti nel progetto filmico e hanno accettato con entusiasmo di intrepretare le parole dei loro cari ormai scomparsi.
Ecco che gli immigrati di un tempo parlano oggi attraverso la bocca degli abitanti attuali di Barre che, colti nella loro quotidianità, nell'atto di compiere gli stessi gesti dei loro padri, recitano le toccanti interviste. Il sindaco di oggi presta la sua voce al sindaco degli anni Trenta, l'infermiera alla sua omologa del passato, e così via in un cortocircuito temporale e stilistico spiazzante. Ecco dunque la voce di cavatori, scalpellini, scultori, ma anche di contadini, ristoratori, ubriaconi, vedove che per un istante sembrano tornare alla vita, raccontando le loro vicende dolorose e le loro piccole gioie, in una sorta di commovente Antologia di Spoon River visuale.
Ed è proprio Giuliano, un anziano scultore di origini carraresi, che ci guida tra le tombe e ascolta le voci dei personaggi. Un moderno Virgilio, un vero e proprio mediatore tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
NOTE DI REGIA
Realizzando questo film non mi sono mai posto il problema della sua classificazione. Anche se chiaramente sapevo bene di andare oltre il documentario come lo si intende comunemente. È evidente che c'era un intento di sperimentare nuovi linguaggi.
Il film è effettivamente dominato dal cortocircuito temporale tra passato e presente. E questo può inizialmente spiazzare lo spettatore e togliergli le sue “sicurezze” di genere.
Tutto ciò che vediamo nel film appartiene al presente, alla vita quotidiana della cittadina di Barre. Per certi versi si direbbe un comune documentario di osservazione.
Ma tutto ciò che ascoltiamo proviene invece dal passato, proviene dai testi delle interviste fatte agli abitanti negli anni Trenta. Le parole dei personaggi che vediamo muoversi nel film appartengono ai fantasmi dei loro avi.
Con questa scelta ho inteso rimettere in discussione le certezze su cui poggia l'esperienza cinematografica di chi guarda. La realtà e l'immagine che ci appare sotto gli occhi non risponde solo al presente ma nasconde uno strato inferiore, profondo, che arriva direttamente dal passato, dal nostro vissuto di comunità.
Si tratta di un film, questo è quanto. Le riflessioni sul grado di realtà incarnata nel film arrivano dopo e sono tutto sommato secondarie.
È evidente che trattandosi di un'opera che intende restituire la parola e il corpo a dei fantasmi, difficilmente può essere intesa come un documentario in senso stretto. Eppure la realtà è lì. E ne è un elemento imprescindibile.
Nella genesi del film un ruolo fondamentale è stato giocato da Giuliano Cecchinelli. Quando sono arrivato a Barre, tutti quanti mi hanno detto che per il mio film avrei innanzitutto dovuto parlare con lui. Avevano ragione. Giuliano rappresenta magnificamente la memoria storica e artistica di tutti gli emigranti - scultori e scalpellini - italiani. Lui è l'unico personaggio a parlare veramente per se stesso. Quando lo ascoltiamo si tratta veramente delle sue parole. Quando gli ho chiesto di raccontare, la prima cosa che ha fatto è stata portarmi a visitare cimitero di Hope. Giuliano, oltre a essere un bravissimo scultore, ne conosce ogni anfratto, ogni segreto, ogni storia, ogni piccolo fiore di granito che adorna le tombe. E subito mi sono reso conto che ciò che stava facendo era veramente di mettermi in relazione con quel mondo profondo popolato di fantasmi.
La ricerca degli altri personaggi, poi, è stata senza dubbio parte fondamentale del processo di creazione. Partivo dalle bellissime interviste del Federal Writers Project. Quella era la mia Bibbia. Durante i sopralluoghi a Barre, avevo in mente ogni parola di quei testi. E poco a poco, come per magia, mi capitava di fare incontri con persone che, in maniera più o meno evidente, erano legati a quelle storie degli anni Trenta. E l'associazione avveniva in maniera naturale, quasi ovvia. Spesso il legame tra il personaggio del presente e quello del passato era dato dal mestiere e dalle origini. E così allo scalpellino di origini irlandesi ho chiesto d'interpretare le parole dello scalpellino appena arrivato da Dublino. All'infermiera del locale ospedale ho chiesto di interpretare le parole della sua collega degli anni Trenta che raccontava dal suo posto di lavoro nel sanatorio la tragedia della silicosi. E così via.
Ma spesso mi ritrovavo a scoprire che i nessi intimi andavano ben oltre, in certi casi sfiorando una vera e propria identità.
Mi sono reso conto che ero sulla strada giusta quando, dopo i primi esperimenti di lettura dei testi, i personaggi che avevo scelto terminavano tutti invariabilmente col dire stupefatti: “questa è la mia vita, questo testo parla di me, di come io vedo il mondo!”.
Il demone della pietra è centrale in tutto il film. È inseguendolo che centinaia se non migliaia di scalpellini e scultori di Barre sono andati incontro alla morte provocata dalla polvere di silice, dalla silicosi.
Non erano solo dei poveri immigrati che non sapevano di che altro vivere. In molti casi avevano capito quello che gli sarebbe toccato. Eppure continuavano, per un misto di fatalismo e di amore viscerale per questo materiale affascinante, denso di significato.
Gli antichi consideravano la pietra come “le ossa della madre terra”.
Giuliano, nel film, afferma che ne sia “il sangue”: “la pietra è tutto, sostiene tutto.”
E poi c'è l'aspetto della ricerca del trascendente, dell'eterno. Una pietra che dura quanto il granito è il solo elemento che ci può sopravvivere a lungo e che può eternare la nostra vita attraverso l'arte. Un contrasto forte con la vita breve dei tagliatori di granito.
Il modo in cui ho deciso di girare il film è stato particolare ma si è reso necessario per la peculiarità della storia.
Da un lato ero obbligato a mettere in relazione la fragilità della vita umana con l'enormità smisurata e la potenza della pietra. Da qui i campi lunghissimi nelle cave, in cui gli uomini si perdono come formiche.
Dall'altro mi interessava indagare fin nelle pieghe più nascoste della mimica facciale dei protagonisti questo legame straordinario tra passato e presente, tra i personaggi del passato e quelli del presente che donavano loro la voce e i volti. Da qui l'esigenza di primi piani molto stretti, insistiti. E poi c'è stato un lungo lavoro di montaggio per mettere in relazione certe espressioni del volto con certe parole. I personaggi parlano quasi sempre con voce fuori campo ma ho cercato di mettere la loro voce in risonanza con i loro gesti, con le loro espressioni.
Ci sono poi dei momenti, quasi rivelatori, in cui i personaggi si rivolgono direttamente alla camera. Ciò che ho fatto è stato di chiedere a loro stessi se trovassero nel testo che leggevano delle frasi che li toccavano particolarmente e che sentivano appartenere loro. In quel caso, e solo in quello, si rivolgevano verso gli spettatori per dichiararsi, per materializzare esplicitamente questo cortocircuito implicito tra passato e presente.