Il resto con i miei occhi

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Il resto con i miei occhi

Il resto con i miei occhi

titolo originale:

Il resto con i miei occhi

titolo internazionale:

The Rest with my eyes

scenografia:

produzione:

A Film Productions, Arturo & Mario Production, con il contributo di Nuovo I.M.A.I.E.

distribuzione:

paese:

Italia

anno:

2016

durata:

93'

formato:

DCP - colore & b/n

aspect ratio:

1.85:1

uscito il:

27/03/2017

Claudia Cattelan, una video-artista italiana, sta preparando un film per il cinema, un progetto piuttosto insolito tra realtà e finzione. Come farebbe qualsiasi regista, incontra e provina vari attori, ma non sembra molto soddisfatta. Giunta a Rotterdam per dei sopralluoghi, la storia che vuole raccontare è ambientata in quella città, incontra un attore francese, a cui propone il ruolo di protagonista. Sebbene non sia famossissimo, Serge Coran è un serio professionista che dopo anni di dura gavetta non ha ancora avuto l’opportunità di interpretare un ruolo primario per il cinema. È venuto fino a Rotterdam proprio per questa ragione, ma trova piuttosto singolari le modalità dell’incontro e il provino a cui viene sottoposto. In albergo visiona dei filmati, alcune opere di arte contemporanea realizzati da Claudia Cattelan, e inizia a leggere il copione. Qualcosa lo turba nel profondo, ma non si capisce bene di cosa si tratti. Serge si prende un po’ di tempo per decidere e lo comunica anche al suo agente. Lo stesso giorno Serge e Claudia passano la serata insieme, per poi ritrovarsi l’uno nelle braccia dell’altra. Una notte d’amore del tutto imprevista, due solitudini che s’incontrano, o forse semplice destino. Serge Coran lascia l’albergo all’alba e ritorna a Parigi dove l’aspettano sul set per le riprese di un film, in cui interpreta il poeta francese Boris Vian. Anche Claudia, dopo un dolce risveglio, ritorna a Roma per incontrare altri attori. Qualche giorno dopo, tra un provino e l’altro, Claudia riceve una telefonata da Serge Coran: una buona notizia perché Serge ha accettato il ruolo. Claudia è contenta ma anche un po’ preoccupata visto quello che è successo tra loro a Rotterdam. Mentre Serge Coran festeggia in compagnia di sua moglie, di sua figlia e di amici qualcosa di non ben precisato, forse una nomina a direttore artistico di un teatro, Claudia ritorna a casa sua nei pressi di Padova. Ad attenderla due ragazze e una babysitter. Scopriamo così che Claudia non è solo una regista ma anche una madre, una donna separata. La mattina dopo il suo arrivo, le giunge la sconvolgente notizia che Serge si è tolto la vita. Profondamente addolorata decide di bloccare la preparazione del film e di partire per Parigi. Vuole capire cosa è successo. Trascorre una notte d’inferno in uno squallido albergo di Belleville, e la mattina si sveglia troppo tardi per andare ai funerali. Nel pomeriggio però incontra una collega di Serge che la invita a passare la serata con la compagnia. Senza volerlo Claudia si ritrova a casa della moglie e della figlia di Serge, una sorta di cena commemorativa tra pochi intimi. La cosa la imbarazza molto, ma la voglia di sapere le ragioni che hanno spinto Serge a quel gesto estremo è più forte. Claudia ha una strana sensazione, pensa che il suo soggetto cinematografico possa aver scatenato qualcosa nella psiche di Serge. Nessuno dei presenti dà adito a questa ipotesi, Serge è descritto da tutti come una persona complessa ma non così fragile. Solo sua figlia Aurélia, l’unica ad aver letto il copione di Claudia, sembra avallare questa suggestione. Céline, la moglie di Serge, incuriosita dall’incontro e dalla conversazione, chiede alla figlia di leggere il copione del film in questione. Il giorno dopo le due donne si incontrano, e Céline intuisce che tra Claudia e Serge c’è stato qualcosa. Nonostante questo una profonda solidarietà femminile le unisce nella perdita. Claudia torna a Roma, la sua collega Cristina l’informa che ci sono i soldi per iniziare le riprese. Claudia deve prendere una decisione: continuare o fermarsi...

NOTE DI REGIA:
Il 10 febbraio dello scorso anno, l’attore e regista Manrico Gammarota si è tolto la vita con un gesto estremo. Una notizia dolorosa che ha sconvolto amici e colleghi. Nonostante i precedenti, la lista degli artisti suicidi è fin troppo lunga, quando succedono certe cose lo sgomento è sempre molto forte. Tutto mi sarei aspettato da lui tranne che questo epilogo violento. Manrico aveva una decina di anni più di me, era un uomo maturo e tranquillo, ai miei occhi uno degli attori più equilibrati che io abbia mai conosciuto. Dovevamo fare un film insieme, avevo scritto il ruolo del protagonista su misura per lui. Manrico era molto stimato nell’ambiente e da poco era anche stato nominato direttore artistico del teatro Curci di Barletta, sua città natale. Manrico aveva vinto premi e lavorato con registi affermati, ero pertanto lusingato del suo interesse nei miei progetti, e lieto di offrirgli l’opportunità di interpretare un ruolo primario adeguato alle sue caratteristiche. Infatti, il protagonista della mia storia era un attore, non famosissimo ma di talento, un po’ come lo era lui. Un piccolo film di genere Noir ambientato a Rotterdam, una metafora per dire che vita non è tanto quella che hai vissuto, ma quella che ricordi. Pochi giorni prima del suo suicidio Manrico mi aveva chiamato per ribadire e confermare il suo interesse a interpretare il ruolo principale. Una telefonata un po’ strana perché per me era scontato che fosse lui il protagonista, se avessi trovato le risorse necessarie. Strana perché preceduta da un lungo silenzio, a cui non avevo dato importanza, visti i suoi molteplici impegni teatrali. La mattina del 10 febbraio gli inviai un messaggio per informarlo che la nostra pratica, partipavamo al bando del Nuovo I.M.A.I.E. proprio per garantire una retribuzione di base agli attori, si era sbloccata, e a parte qualche ritardo avevamo i requisiti per ottenere il finanziamento. Non so se lui abbia letto quel messaggio, ma ho avuto la terribile sensazione che il suo gesto estremo avesse qualcosa a che vedere anche con il nostro film. Non mi riferisco alla coincidenza temporale del messaggio, l’ho conservato nel mio cellulare, ma al soggetto del film, che seppur in maniera simbolica descriveva l’epilogo esistenziale di un uomo, di un attore che entra nel circolo vizioso di un’ossessione: quella di pensare alla sua vita come se questa fosse il copione di un film, di cui lui è interprete e autore.
Una volta ricevuta la triste notizia, decisi d’interrompere la preparazione. Avvertii tutto il cast che non me la sentivo di continuare. Una decisione emotiva certo, ma non solo dettata dal dolore. Ero anche molto arrabbiato e non capivo bene il perché. Avevo lavorato duro per molti mesi e tutto quello che avevo fatto veniva distrutto in un sol colpo, ma non era questo il motivo nel mio malessere. Mi sentivo come se quel gesto estremo mi avesse investito di qualche responsabilità. È facile sentirsi in colpa quando succedono certe cose, e dire a sé stessi come hai fatto a non accorgerti di nulla? Manrico era solo un collega, non un amico che frequenti tutti i giorni, perché colpevolizzarsi di qualcosa che non puoi sapere? Del resto il mio rapporto con gli attori è generalmente limitato a questioni lavorative, non frequento molto l’ambiente, non entro nella sfera del privato. Se avessi saputo della sua depressione, non intendo la malattia perché non sono uno psichiatra, ma di un disagio esistenziale così forte, non gli avrei proposto quel ruolo, di questo sono certo. Parlando con altri colleghi sono venuto a conoscenza di fatti a me ignoti, e che Manrico aveva confessato già molti anni fa il suo desiderio, se così possiamo chiamarlo, di farla finita. Nel 2007 aveva diretto e interpretato un cortometraggio dal titolo premonitore “Facciamola finita”, una commedia drammatica che finisce con un salto nel vuoto del protagonista. Sarebbe stato facile accontentarmi di queste evidenze, sostituire il protagonista e proseguire la mia strada. Una parte di me però si ribellava, mi spingeva altrove. Non solo non era così facile sostituire il protagonista, visto che avevo concepito quel film pensando a Manrico per il ruolo primario, ma qualcosa mi diceva di non insistere e di passare ad altro. Come portare avanti un progetto cinematografico partendo da un’energia così negativa? Due mesi dopo il tragico evento ricevetti la comunicazione dal Nuovo I.M.A.I.E. che la mia domanda era stata accettata, contributi per pagare gli attori. Informai il cast di questa novità aggiungendo che non sapevo come comportami. Mi era passata la voglia di fare quel film, ma non volevo penalizzare nessuno. Un dilemma, perché qualsiasi decisione avessi preso avrebbe avuto delle conseguenze per nulla banali. Dopo aver parlato con tutti i miei interlocutori è nata l’esigenza di riscrivere l’intera sceneggiatura tenendo presente quella sottile distanza che c’è tra reale e finzione, ma anche di salvare parte dei contenuti del soggetto originario. In un’epoca in cui prevale il linguaggio della persuasione mi è sembrato interessante seguire l’emozione e risolvere questo lutto, questo impulso alla morte (Tanathos) raccontando una breve storia d’amore (Eros). IL RESTO CON I MIEI OCCHI è la conseguenza di alcuni eventi reali ma anche la leggittima reazione a una perdita, a un dolore, che mi è sembrato più interessante da descrivere e raccontare rispetto al soggetto originario. Questo cambio di direzione mi è costato molto in termini personali e pratici. Mi sono anche separato dopo le riprese del film, subendo un’altra perdita ben più dolorosa.
Non ho nessuna aspettativa da questo film, solo uscirne con le ossa non troppo rotte, ma ho anche un grande desiderio, che i delegati dei festival a cui invierò copia del film lo guardino attentamente. Perché il film ha diversi piani di lettura, e la performance della protagonista non può passare inosservata, sarebbe un vero peccato. È già successo che i protagonisti dei miei lavori di cinema e teatro abbiano ottenuto dei premi, e questo mi ha reso sempre molto felice. Non mi dispiace affatto aiutare gli attori nel loro percorso, ma in questo caso è diverso, la performance attoriale è buona parte del film.
Dopo la premessa entro nel merito dei contenuti; questo film chiude la mia trilogia, tre lungometraggi del tutto autonomi legati tra loro da un filo conduttore, il sentimento come origine profonda delle azioni umane. Sì, perché molte delle nostre azioni o comportamenti non partono da un sentimento profondo, ma da altri fattori. Interessante notare che spesso l’essere umano agisce non tanto quello che sente, ma ciò che è meno sconveniente. Il sentimento è importante per tutti noi, ma la cultura e l’educazione, il contesto sociale e altri fattori possono facilmente sottometterlo. Sento, penso e agisco è il triangolo sui cui si basa l’azione umana, solo i folli agiscono un sentimento senza pensare, appunto seguendo l’impulso senza mediazione. Anche un amore improvviso può essere un gesto folle, ma non per questo sbagliato. Così la decisione di togliersi la vita può essere un impulso incontenibile, o un atto molto ben premeditato.
In passato sono stato criticato, penso ingiustamente, per il fatto che i miei film sono in qualche modo troppo personali. In verità le tre storie che ho scritto, i tre lungometraggi che ho diretto e prodotto, sono film di finzione. Nessuno dei tre episodi della trilogia si può dire sia la riproduzione di eventi realmente accaduti. Mi sono sempre limitato a descrivere lo scenario emotivo, un tentativo d’ispirazione poetica quindi. Con una certa tenacia ho prodotto film d’autore semplicemente anticipando la realtà del nostro periodo storico, in cui privato e pubblico sono meno scindibili che in passato per via di un mondo fin troppo interconnesso, che documenta la vita quotidiana di persone comuni come se fosse il copione di un film da editare. Comprendo bene che l’attualità spinge molti autori a fare film su questioni urgenti e ben più importanti: all’ondata di migranti, le difficoltà economiche in cui versa molta popolazione, la guerra e il terrorismo. Temi che riempiono le pagine dei giornali e che scrittori e registi ci hanno già raccontato. A me è sempre interessato descrivere la condizione umana sul piano della percezione. Indagare la sfera dell’intimo in chiave universale, perché a prescindere da tutto la vita rimane un viaggio fatto di incontri, incidenti e destini.